Quando nel settembre del 2018 giunsi a La Paz per visitare la città e per scalare il Huayna Potosí, mai avrei immaginato che a distanza di un anno sarei ritornato per scalare l’Illimani, la seconda montagna più alta della Bolivia e la più alta della Cordillera Real.
UNA NUOVA SFIDA
Io e German, la mia guida, eravamo in auto diretti a La Paz. Il Huayna Potosí, alle nostre spalle, ci vedeva andar via dopo avermi concesso la possibilità di raggiungere la sua vetta e regalarmi una delle albe più belle della mia vita.
Il mio cuore era pieno di gioia mentre la mia mente era piena di pensieri, di sogni e tra una curva e l’altra chiesi a German quale montagna avrei potuto scalare se fossi ritornato in Bolivia e senza esitazione mi rispose: «L’Illimani».
Dopo un po’ rimasi in silenzio, con la testa rilassata sul poggiatesta e lo sguardo rivolto verso la strada immaginando come sarebbe stato raggiungere la sua vetta a 6438 m, quanto sarebbe stato duro, se mai ci fossi riuscito, quando sarei potuto ritornare in Bolivia e sognando altre sfide sempre più ardue. In poche parole la mia testa era un’esplosione di pensieri che viaggiavano velocemente.
Non so se sia un bene o un male, ma non riesco a tenere a freno i pensieri neanche quando dovrei fermarmi e godermi il momento. Una volta raggiunto l’obiettivo, ma spesso anche prima, già penso a quello successivo. Molte volte mi dico che dovrei spegnere i pensieri, respirare e nient’altro, ma non ho ancora capito come si fa.
A maggio 2019, dopo 14 mesi in Sud America, rientrai in Italia. Iniziai a lavorare come coordinatore di viaggi di gruppo per un Tour Operator e le prime mete che mi assegnarono furono la Colombia e il Perù.
La gioia e l’emozione di ritornare in quel continente che ormai reputo come la mia seconda casa, furono accompagnate da un unico pensiero, quasi un’ossessione: scalare l’Illimani. Ecco che a distanza di pochi mesi avevo la possibilità di provarci e sfidarmi nuovamente.
LA SCALATA DELL’ILLIMANI
Dopo mesi di attesa e di preparazione fisica e mentale, finalmente era giunto il momento d’iniziare. La scalata sarebbe dovuta durare quattro giorni, ma per qualche piccolo inconveniente e incomprensione tra me e German, l’avrei dovuta fare in soli tre giorni.
«Ce la farò in soli tre giorni?» Non so quante volte avrò rivolto questa domanda a German. L’Illimani mi spaventava un po’ e sinceramente non mi sentivo pronto al 100%, ma lui continuava a ripetermi che ce l’avrei fatta senza problemi. Non so se veramente credeva in me o lo faceva solo per darmi coraggio, ma ormai avevo deciso che ci avrei provato e non mi sarei tirato di certo indietro.
GIORNO 1 – 30 08 2019
Alle ore 9:00 lasciamo La Paz. La mia guida sarà José e non German, come sul Huayna Potosí, ma mi ha assicurato che è preparato e che farà di tutto per aiutarmi a raggiungere il mio obiettivo.
Man mano che ci allontaniamo dalla città e ci avviciniamo all’Illimani, la montagna diventa sempre più alta e imponente e proporzionalmente aumentano i miei dubbi, le mie paure, le mie insicurezze che cerco di scacciare con dei respiri profondi e ricordando le parole d’incoraggiamento di chi ha appoggiato e sostenuto questa mia “pazzia”.
In circa tre ore di auto e qualche sosta fotografica, arriviamo a Pinaya un piccolo villaggio andino situato a 3700 m s.l.m. e luogo di partenza per chi decide di provare l’ascesa al Pico Sur seguendo la via Normale. Qui scarichiamo l’auto, pranziamo e ci accordiamo con un “portatore” che ci aiuterà in questa avventura.
La montagna si mostra in tutta la sua grandezza. Il sole illumina e riscalda il mio viso rivolto costantemente verso l’alto. Il cielo azzurro contrasta il bianco della vetta e il nero delle rocce, mentre le nuvole viaggiano velocemente mosse dal forte vento.
Non c’è più tempo da perdere. Lo zaino è sulle mie spalle. Faccio un grande respiro e si parte.
Il passo è deciso, anche se purtroppo non mi sento così ben acclimatato. A differenza dell’ultima volta, quando prima di scalare il Huayna Potosí avevo passato circa tre mesi sopra i 3000 m e avevo fatto tanti trekking sulle Ande a diverse altitudine, questa volta ho trascorso meno tempo sulle Ande e per acclimatarmi ho fatto qualche trekking sui 4000 m e una piccola scalata a Huaraz in Perù a “soli” 5282 m. Nonostante tutto, però, non ho scuse. Sono qui e devo raggiungere la vetta.
In circa due ore di cammino non troppo faticoso tra ruscelli di acqua glaciale, lama e panorami meravigliosi, raggiungiamo il campo base a 4500 m s.l.m. Per mia grande sorpresa e gioia non c’è quasi nessuno, così scegliamo il posto migliore dove posizionare la tenda e goderci al meglio questo spettacolo della natura.
In montagna a questa altitudine mi sarei aspettato di trovare più neve o ghiaccio, ma purtroppo nulla di tutto ciò. Con il passare del tempo i ghiacciai perenni si ritirano sempre più velocemente lasciando spazio alla roccia.
Dopo aver montato la tenda mi riscaldo un po’ sorseggiando un mate di coca, mentre osservo tramontare il sole che colora di arancione l’Illimani situato alle mie spalle e mi sfiora per l’ultima volta il viso prima di nascondersi dietro le montagne.
La temperatura ora è rigida, ma la natura decide di farmi l’ennesimo regalo. Il cielo è costellato di stelle e la via lattea è ben visibile ad occhio nudo. Le Ande mi hanno regalato cieli meravigliosi che non potrò mai dimenticare.
Dopo cena posiziono la macchina fotografica per immortalare per sempre questo momento, prima di rifugiarmi nel sacco a pelo, riscaldarmi un po’ e mettermi a dormire.
GIORNO 2 – 31 08 2019
Alle prime luci dell’alba sono già sveglio. I pensieri mi hanno tenuto compagnia per tutta la notte e non sono riuscito a riposare come avrei voluto. Sul mio volto i segni di una nottata passata a girarmi e rigirarmi nel sacco a pelo nella speranza di recuperare le energie.
Alle 8:00 sono fuori dalla tenda ricoperta di ghiaccio. L’Illimani copre il sole e io non riesco a riscaldarmi, nonostante una tazza di mate bollente tra le mani. La cosa che mi stupisce e mi lascia senza parole è vedere Juan, un uomo di circa 50 anni di Pinaya, raggiungerci vestito con una semplice camicia, un maglioncino aperto sul davanti, una sciarpa molto leggera al collo, un paio di pantaloni e i sandali ai piedi. Io non sono un tipo freddoloso, tranne per mani e piedi, ma vederlo in sandali mi ha letteralmente lasciato esterrefatto.
Dopo poco meno di due ore, siamo pronti a riprendere il cammino per raggiungere il Campo alto o Nido del Condor a 5500 m.
La salita, lungo un crinale roccioso, è abbastanza impegnativa e in alcuni tratti poco sicura a causa della roccia friabile. L’area rarefatta amplifica ogni sforzo così come l’abbassamento della temperatura. Fortunatamente non abbiamo fretta e posso concedermi qualche sosta in più per recuperare un po’ di energie e fiato e per ammirare lo spettacolo offerto dalla Cordillera Real.
In circa quattro ore arrivo molto stanco e provato. Nelle gambe sento tutta la fatica dei due giorni di cammino e la parte più dura deve ancora arrivare. Tutto ciò aumenta i miei dubbi e le mie insicurezze.
La vetta della montagna, nascosta da altri picchi, sembra irraggiungibile. Lo sguardo è rivolto verso l’alto alla ricerca della possibile via di ascesa, ma la neve è uniforme e non posso far altro che immaginarla.
Il silenzio di quel luogo così tanto lontano dalla civiltà, è interrotto dalla caduta di alcune valanghe che creano delle crepe nel mio involucro di tranquillità. Ormai sono alla terza scalata della mia vita in alta montagna, nulla in confronto ad altri, ma abbastanza per capire che con la montagna non si scherza. Basta una piccolissima distrazione per mettersi nei guai. Ogni montagna, anche quella dall’apparenza più semplice e sicura, va affrontata con il massimo rispetto.
L’Illimani è ritenuta una montagna abbastanza sicura, ma nonostante ciò alcuni scalatori hanno perso la vita mentre cercavano di raggiungere la vetta e proprio a campo alto sono presenti alcune croci con i loro nomi incisi.
Vederle poco lontane dalla mia tenda mi fa uno strano effetto. Mi trasmette profonda tristezza sapere che la montagna gli ha tolto la vita, ma allo stesso tempo mi mette in guardia sul non rischiare più del dovuto.
Alle temperature già abbastanza rigide, si aggiunge una leggera nevicata che giunge nel primo pomeriggio. Il cielo è coperto e come ogni volta mi auguro che l’indomani mattina sia limpido in modo da regalarmi un bellissimo panorama una volta raggiunta la vetta.
Poco prima del tramonto torna il sereno. Il sole, di un colore arancione intenso, si abbassa sempre di più fino a scomparire e lasciare spazio all’oscurità. In lontananza La Paz s’illumina mostrandosi in tutta la sua grandezza.
La sveglia suonerà in piena notte, così alle 18:30 sono già in tenda per cercare di dormire il più possibile e recuperare le energie fisiche e mentali necessarie durante la scalata finale.
GIORNO 3 – 01 09 2019
È mezzanotte. Suona la sveglia. Non so quanto avrò dormito, ma mi auguro abbastanza per aver recuperato le energie necessarie per raggiungere la vetta. Il sacco a pelo mi ha tenuto caldo e i muscoli sono un po’ più rilassati, ma nonostante questo sento ancora la schiena e le gambe indolenzite per gli sforzi dei due giorni precedenti.
Inizio a prepararmi con molta fatica, perché a queste altitudini ogni minimo movimento richiede più energia del normale e mi ritrovo subito con il fiatone. Le rigide temperature rendono tutto più complicato e il piacevole caldo del sacco a pelo è ormai un lontano ricordo.
La parete della montagna è di fronte a me seminascosta dal buio della notte. La guardo mentre sono seduto nella tenda e sorseggio un caldo mate di coca con la speranza di riscaldarmi un po’. La testa è piena di pensieri, paure e dubbi. È un mix di sensazioni non del tutto positive.
I ramponi sono ben saldi agli scarponi. Il casco, posizionato sopra il cappello, è stretto al punto giusto. Alle mani due paia di guanti (che diventeranno tre durante la scalata). La mano sinistra impugna la piccozza (che va tenuta sempre dal lato della montagna, quindi durante i sentieri a zig zag si cambia mano ad ogni curva). Ci siamo. È giunto il momento che tanto avevo aspettato e immaginato. Ora manca veramente l’ultimo atto, il più duro. Alle ore 01:30, dopo un respiro profondo, inizia l’ascesa finale.
Dopo aver superato la prima parte su roccia, non senza qualche piccola preoccupazione, inizio ad affondare i ramponi nel ghiaccio e ciò fa sì che mi senta un po’ più sicuro. L’altitudine mi lascia senza fiato e per il freddo non mi sento più le mani. Il naso otturato, a causa del raffreddore, mi costringe a respirare con la bocca causandomi un fortissimo bruciore alla gola. Sono partito da poco e mi sento già in pessime condizioni.
La parete della montagna è veramente ripida e sfiancante e rispetto alle precedenti scalate sul Vulcano Cotopaxi o sul Huayna Potosí dove a ripide salite si alternavano piccoli tratti pianeggianti che mi davano la possibilità di recuperare un po’ di energie, qui non faccio altro che procedere in verticale.
Mentre avanzo a zig zag tra un crepaccio e l’altro, la testa si riempie di pensieri negativi difficili da scacciare in certe situazioni. Inizio a pensare che non ce l’avrei fatta e che forse questa volta mi ero spinto ben oltre le mie possibilità, ma non volevo cedere e cercavo di farmi forza guardando il meraviglioso cielo stellato che vegliava su di me.
In pressappoco tre ore e alcuni tratti ripidissimi, ci fermiamo per una piccola pausa. Ho bisogno di bere e recuperare le forze, ma il freddo intenso mi spinge a riprendere la marcia dopo pochi minuti. Le mani e i piedi mi fanno male e per evitare che si congelino, devo muoverli il più possibile. La barba è ghiacciata e non mi sento più il naso. Per riscaldarlo e proteggere la gola dal freddo, mi copro con uno scalda collo in pile che rende ancora più difficile la respirazione.
In situazioni così dure ed estreme mi capita di pensare a chi me l’abbia fatto fare, che potrei “accontentarmi” di bellissimi trekking di montagna che mi regalerebbero comunque panorami mozzafiato, ma poi mi ricordo delle scalate precedenti e delle sensazioni provate. Mi ricordo delle lacrime versate una volta in vetta e della soddisfazione che si prova lassù. Il sentirsi così piccolo al cospetto della montagna e della natura, ma allo stesso tempo sentirsi quasi invincibile e capace di affrontare ogni ostacolo o avversità che si presenterà lungo il cammino della vita.
La montagna mi ha conquistato, mi ha formato e insegnato tanto. Ormai ricordo queste sfide ogni volta che mi trovo in difficoltà e in esse trovo la forza di superare gli ostacoli.
Ho superato i 6000 m e per ogni cinque lenti e piccoli passi, mi sento come se avessi corso i 100 m piani. Molte volte sono costretto a fermarmi a prendere fiato. In alcuni casi mi piego sulla piccozza per sfruttare ogni secondo di pausa per recuperare fiato ed energie. È dura. È veramente molto dura e faticosa.
Il mio corpo inizia a cedere. Sono veramente distrutto e inizio a pensare che non riuscirò a raggiungere la vetta. Forse dovrei fermarmi e iniziare la discesa, perché questa volta mi sono spinto oltre le mie reali possibilità. Penso che dovrei comunque essere orgoglioso di me per quello che ho fatto, ma la realtà è che non sarebbe così e allora spingo un altro po’. Se mollerò non sarà qui, non sarà ai 6000.
Mi fermo. Respiro. Alzo la testa e osservo il cielo stellato prima di voltarmi indietro verso la valle e scrutare la Paz illuminata. Sembra così piccola. Tutto è bello da quassù. Sono pronto a ripartire, più deciso e determinato di prima. Piccolo cenno d’intesa con José e ripartiamo.
Dopo un lungo tratto, che sembrava quasi interminabile, chiamato “Escalera al Cielo” per la sua pendenza costante e stremante, raggiungo una parte piana dove mi accascio per riposare un po’.
Ormai la notte ha lasciato spazio alle prime luci dell’alba e quando rivolgo lo sguardo verso la valle sottostante, vedo il sole sorgere aldilà delle nuvole. Un’emozione scuote il mio corpo e il mio cuore. Le lacrime accarezzano il mio viso e all’improvviso non sento più la fatica.
Per la terza volta nella mia vita ho la fortuna di godermi l’alba in alta montagna, ma questa volta non sono in vetta e la strada è ancora lunga, così mi asciugo il viso, trovo un po’ di forze e aiutandomi con la piccozza mi rimetto in piedi.
Alle 08:15, dopo quasi sette lunghe, estenuanti e interminabili ore eccomi finalmente sulla vetta dell’Illimani a 6438 m. Mi accascio al suolo e inizio a piangere. Piango come ho sempre fatto ogni volta in vetta. Piango perché trattenere le lacrime è veramente impossibile. La gioia, la soddisfazione, l’orgoglio, la felicità per avercela fatta sono incontenibili e indescrivibili. Mi ripeto che ce l’ho fatta anche questa volta. Piango perché la natura regala capolavori inimmaginabili dove il bianco della neve si confonde con quello delle nuvole. Piango perché le emozioni che si provano in questi momenti non possono essere raccontate o descritte, ma solo vissute. Ogni parola, video o fotografia non potrebbe mai esprimere realmente cosa si prova quassù.
Mi alzo, abbraccio e ringrazio José per avermi aiutato a raggiungere questo nuovo traguardo e subito dopo mi godo uno dei panorami più belli della mia vita. In lontananza vedo il Huayna Potosí. Mi trovo su quella vetta che solo un anno prima vedevo sbucare tra le nuvole e mai avrei pensato di scalare. L’Illimani, la montagna protettrice di La Paz non fa più così paura.
Rivivo la fatica di queste sette ore, dei momenti in cui stavo per cedere e delle volte in cui mi sono chiesto chi me l’abbia fatto fare, ma basta guardarmi intorno per trovare la risposta. Chiudo gli occhi, alzo leggermente la testa e apro le braccia. Il vento gelido mi accarezza il viso e i miei pensieri viaggiano lontano, verso gli amici ai quali avevo promesso che ce l’avrei fatta.
Sarebbe bello fermarsi quassù tutto il tempo che si desidera, ma non è così. Dopo 25 minuti inizio la discesa, non meno faticosa della salita. I ramponi bloccandosi nel ghiaccio, fanno sì che il peso del corpo sia scaricato tutto sulle ginocchia, rendendo la discesa una totale sofferenza.
Alle 13.00 senza più energie, con il naso bruciato dal sole e la gola infiammata per il freddo, giungo finalmente al campo alto. Ora posso spogliarmi dell’attrezzatura, riposare e pranzare. Sono esausto e dolorante, ma super orgoglioso di me stesso e di cosa sono riuscito a fare.
Dopo tre giorni di fatica, freddo, avventura, montagna, natura, è giunta al termine un’altra meravigliosa esperienza. Un altro, piccolo per alcuni, ma grandissimo record per me è stato raggiunto. Come già successo le altre due volte, il pensiero, la voglia di sfida e l’ambizione, viaggiano verso una vetta più alta. Chissà se ci proverò e soprattutto se ce la farò, ma sognare non costa niente e la ricerca è già iniziata.
IL VIDEO DELLA SCALATA SULL’ILLIMANI
INFO UTILI
Per fare questa scalata bisogna essere accompagnati da una guida autorizzata, a meno che chi decide di farlo, non sia a sua volta guida. Ogni guida può portare con sé una o due persone, ma se una delle due è costretta a scendere per un qualsiasi motivo, tutti sono costretti a tornare indietro. Per questa ragione ho deciso di farlo solo.
Io mi sono rivolto a German, una guida boliviana molto seria e preparata.
Prima di provare qualsiasi scalata a queste altezze, il corpo deve essere acclimatato all’altitudine, quindi se si arriva direttamente dall’Italia o da luoghi di bassa altitudine, bisogna aspettare qualche giorno affinché il corpo si acclimati.
La montagna merita rispetto, sempre e comunque, perciò non fate gli eroi. Raggiungere la vetta è bello, ma viene prima la vita. Se non siete in condizioni, tornate indietro. Avrete la possibilità di riprovarci.
COSTO
Guida: Per la scalata privata ho pagato 3700 bolivianos
Tassa Boliviana: 20 bolivianos
DURATA DELLA SCALATA SULL’ILLIMANI
Generalmente la scalata si effettua in quattro giorni.
COSA PORTARE
- Acqua (il necessario per raggiungere il campo base)
- Snack (barrette, cioccolato)
- Protettore solare (siamo in altura ed il sole è forte)
- Giacca a vento
- Abbigliamento molto caldo e attrezzatura (nel caso abbiate la vostra)
- Maglia termica
- Scarpe da trekking
- Antipioggia
- Cappello
- Occhiali da sole
- Burro cacao
- Guanti sottili (da mettere sotto quelli imbottiti)
- Torcia frontale con batterie nuove o con tanta carica residua
- Calze pesanti
- Macchina fotografica
- Zaino da 50/60 L
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QUANDO ANDARE SULL’ILLIMANI
Il periodo migliore per scalare l’Illimani è senza dubbio la stagione secca che va da GIUGNO a SETTEMBRE, perché essendo inverno la neve è più compatta. Con l’arrivo dell’estate e della stagione delle piogge, il rischio valanghe è alto e di conseguenza non si può scalare.
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